Quando mamma mi guarda sono felice perché esisto


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Guardarsi, incontrarsi e trovarsi negli occhi dell'altro è importante a tutte le età, è vitale. A partire da Lorenz che quando guardava i pulcini diventava il loro caregiver primario alle mamme nei confronti dei neonati. In questo breve scritto, alcune rilfessioni al riguardo.

30/01/2020 | 16:00

"Nel bambino piccolo la fame dell’amore e della presenza materna non è meno grande della fame di cibo" (J. Bowlby).

Nella tradizione iconografica pittorica cristiana delle Madonne con bambino, molto raramente la madre guarda il piccolo negli occhi. Forse perchè Maria, già a conoscenza del destino di Gesù, non guardandolo, non si sarebbe legata troppo a lui e in questo modo, avrebbe sofferto di meno per la sua morte. Sta di fatto che l’usanza di non manifestare troppo affetto ai bambini è perdurata nei secoli con le dovute eccezioni, fino a pochi decenni fa. Il tasso di mortalità neonatale infatti, dai tempi antichi e fino al primo dopoguerra, era altissimo. Le levatrici, le mammane, le ostetriche, i medici e i pediatri, forse suggerivano spesso alle neomamme di non guardare eccessivamente i loro bambini appena nati per non affezionarsi troppo, così, in caso di eventuale morte prematura del nascituro, avrebbero provato meno dolore.

Il dolore di una madre (o causato da qualsiasi tipo di lutto) però, non dipende certamente da quanto si guarda il figlio. In realtà, non guardare i neonati ha delle ripercussioni gravi nel bambino in termini di attaccamento, non solo nella relazione tra lui e la madre, ma in generale, nel modo di relazionarsi con gli altri e col mondo.

 

Nella tradizione psicoanalitica e non, degli anni passati, era considerata la bocca, il mezzo privilegiato a disposizione del neonato per stabilire un legame, anche affettivo, con la madre, esplorare e testare il mondo. Sicuramente lo è ma si dava pochissima importanza alla vista. La scoperta dei “Neuroni Specchio”, da parte di un equipe italiana a inizio anni 90 (Rizzolatti e coll.) ha rivoluzionato tutto e ha rivalutato il ruolo fondamentale della vista. In parole semplici, questi neuroni si attivano già fin dalla nascita ma “solo” in risposta alla vista di gesti o espressioni degli altri, per il resto del tempo sono silenti. Ci permettono di prevedere e comprendere le azioni e gli stati d’animo degli altri. Quindi ad esempio: se la mamma ride, ride anche il piccolo, se la mamma piange, anche il piccolo piange, se il papà caccia la lingua, dopo vari tentativi lo fa anche il neonato, se il papà fa una “O” con la bocca, il neonato lo imita (questi ultimi sono piccoli esperimenti innocui che ogni papà può fare). Questo accade già a poche ore di vita.

La cosa interessante è che se ad esempio la madre è serena, quindi ride e anche il bambino ride, il bambino prova emozioni positive che rimanda alla madre con sorrisini o gorgheggi e quindi anche lei è più serena e più sicura della sua competenza materna (mi dispiace deludervi ma i sorrisi dei neonati non sono consapevoli, ridono in risposta a sensazioni fisiche piacevoli o per l’attivazione dei neuroni specchio). Questo crea un circolo virtuoso, un circuito a ping-pong positivo per entrambi che si autoalimenta e che lega saldamente il legame madre-figlio. Questi sorrisini di risposta, sono accompagnati da emozioni positive che il neonato prova e che si “memorizzano” nella sua memoria, diventando schemi precoci positivi e adattivi che il bambino comincerà a usare come delle “fondamenta psichiche e neuronali” per costruire ed elaborare le esperienze successive. Non solo, se il bambino percepisce dagli occhi e dai suoni della madre che lei è serena, il piccolo deposita nella sua memoria emotiva (alcune strutture del sistema limbico) esperienze ed emozioni positive che gli permetteranno di costruirsi, già dai primi giorni o mesi di vita, una rappresentazione di Sé come entità amata che si trova in un ambiente sicuro.

L’emozione primaria umana è la paura, essa ci ha garantito e ci garantisce ancora  la sopravvivenza, veniamo al mondo paurosi e questo ci ha permesso di evolvere, è fondamentale perciò nascere in un posto sicuro e controbilanciare questa tendenza naturale, se proviamo troppa paura non viviamo bene, è indispensabile quindi, sia da bambini che da adulti, avere la percezione di trovarci in un ambiente sicuro, controllabile e con altri di cui ci si può fidare.

E’ necessario, per un sano sviluppo emotivo del bambino, non solo guardarlo negli occhi ovviamente, ma anche parlargli, accarezzarlo (qui potremmo aprire un altro capitolo sulle fibre nervose amieliniche a trasmissione lenta, 5 cm al secondo, la durata di una carezza che rispondono solo al tocco delicato, simili per certi aspetti ai neuroni specchio), coccolarlo e contemporaneamente nutrirlo.

Immaginiamo una scena dove una madre serena cambia il pannolino a un bimbo di età compresa tra i pochi giorni e i 2 anni e lo fa guardandolo, sorridendogli, facendo le vocine, accarezzandolo o solleticandolo sul corpo. Immaginiamo ora invece una madre non serena, che mentre cambia il pannolino, pensa al litigio col marito, ad un lutto subito, a problemi vari o a cose brutte del suo passato. Ciò che arriverà ai due bambini creerà due cicli di sintonia totalmente differenti. Questo anche a causa  dalle microespressioni facciali delle due madri, che seppur inconsapevoli e impercettibili, vengono recepite comunque dai neuroni specchio ed elaborate (Ekman ha parlato a lungo della grande influenza delle microespressioni facciali, la serie “Lie to Me” con Tim Roth è basata tutta su questo). Nel primo caso la madre ride davvero e il bambino lo percepisce. Nel secondo o la madre non ride o ride per finta. Peggio ancora se la madre (o chiunque altro vicino al neonato o bambino) ha un’espressione triste, arrabbiata, impaurita, preoccupata, imbronciata, ecc. Questo crea grande paura o confusione nel piccolo, i suoi neuroni specchio registrano le microespressioni facciali della madre e le traducono in: “Mia mamma non mi ama”, “Il mondo non è un posto sicuro”, “Mia mamma non è serena e quindi non può prendersi cura di me ergo sono in pericolo” “C’è qualcosa che non va” = paura”. Si formano quindi dei proto-schemi (le fondamenta di cui parlavo prima) molto primitivi ma già attivi, sui quali il bambino costruisce la sua rappresentazione del mondo e della vita, ovviamente modificabili nel corso del tempo se le cose poi cambiano. 

Dai famosi esperimenti delle scimmie di Harlow, nei quali il cucciolo di scimmia preferiva stare sempre col pupazzo morbido anche se non gli dava cibo, piuttosto che con il pupazzo di ferro che però gli dava il biberon, si è visto che il legame di attaccamento tra madre e bambino è qualcosa di biologicamente innato e non è solo legato alla nutrizione. I lavori di Bowlby e del nostro Liotti (ma anche di molti altri) hanno dimostrato ampiamente tutto ciò, e soprattutto hanno dimostrato come queste precocissime interazioni tra neonato e genitore definiscono la personalità e le relazioni tra gli adulti.

Il nostro cervello è predisposto biologicamente alle relazioni con gli altri.

 

 

Bambini amati e sicuri, con cui c’è stata condivisione di giochi, esperienze o attività, saranno adulti fiduciosi, sereni, aperti agli altri e al mondo. Bambini poco amati, trascurati, costretti o sottomessi, limitati nell’esplorazione, saranno adulti competitivi, personalità agonistiche, patologicamente dominanti o remissive, o alla costante ricerca di mille modi per riempire un senso di vuoto sempre in agguato e con insoddisfazione costante, saranno arrabbiati, repressi, ansiosi e depressi, reagiranno male ad ogni evento spiacevole della vita.

 

Cosa fare allora?

Bè “sembra” semplice, basta guardare i neonati negli occhi con espressioni di gioia e provare davvero gioia mentre lo si fa, accarezzarli, coccolarli, nutrirli, parlare loro lentamente e dolcemente, cantare canzoncine dolci, poi da un anno di vita in poi, trattarli quasi “alla pari” degli adulti, fare le cose “con loro” in modo “collaborativo” e non impositivo, stimolarli, incoraggiarli, fargli esplorare l’ambiente fin dalla nascita fornendo però costante protezione e sicurezza, criticare i loro comportamenti e non la loro personalità, premiare i successi e ignorare gli insuccessi, rinforzare i comportamenti funzionali e ignorare quelli non disfunzionali, decifrare il linguaggio infantile dei capricci e dei loro “NO”, identificare, comprendere e ragionare sui propri stati d’animo quando qualcosa non va come noi vorremmo. Funziona tutto meglio poi, se chi si prende cura del piccolo è sufficientemente sereno, equilibrato, in armonia con se stesso e con gli altri. Un primo passo per raggiungere questa serenità è la consapevolezza. Cercare di non agire in automatico sulla base delle proprie esigenze, di vecchie convinzioni assurde (“mazza e panella fanno i figli belli”, “se lo tieni troppo in braccio lo vizi“ e sciocchezze simili), non facendosi guidare dalle proprie emozioni negative, ma riconoscerle e modularle, non credere di essere una cattivo genitore se il bambino piange troppo, se fa i capricci, se non parla ancora a 2 anni, se non vuole mangiare o se qualche parente dice che è troppo magro, troppo pallido o troppo grasso. Se si mette in dubbio la propria genitorialità il bambino se ne accorge subito. I suoi neuroni specchio rispondono subito ad ogni microespressione facciale del genitore, percepisce subito un tono di voce incerto, uno sguardo turbato, la rigidità muscolare della mamma mentre viene preso in braccio. E che succede? Piange di più, non si calma, non mangia, dice sempre “NO”, protesta, eccetera, alimentando un circolo vizioso che stressa e deprime sia il piccolo che i genitori (spesso anche i nonni), confermando quella credenza di non essere abbastanza bravi come genitore o che è il bambino ad avere qualche problema o di essere in un certo modo (è pigro, è capriccioso, è irrequieto, è viziato, ecc).

Fidatevi invece del vostro istinto, leggete un pochino e commettete errori imparando da essi. Soprattutto amatevi e amate i vostri figli.