"La Regina degli Scacchi: tra vittorie e luoghi oscuri"
Si suggerisce l’ascolto del brano: "Bags For Life" (Ganser, 2020) durante la lettura.
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ATTENZIONE SPOILER ALERT!!!
Non possiamo dire che questo autunno Netflix ci abbia lasciati in preda alla noia.
Tra le proposte recenti la “Regina degli Scacchi”, tratta dal romanzo di Walter Travis “The Queen’s Gambit” del 1983 vince per eleganza, finezza e cura di ogni minimo dettaglio. Dialoghi, costumi, tempi, luoghi, perfino i silenzi, sono determinanti per la creazione di un’atmosfera raffinata. Per non parlare poi dei tecnicismi del gioco, mai noiosi ma veritieri: tutte le partite giocate nella serie infatti, sono riproduzioni reali di partite famose, oppure ricreate ex novo con la supervisione di campioni di scacchi. La serie è girata a Berlino, ma ci fa viaggiare nel tempo e nello spazio. Si snoda lungo un arco che va dagli anni ‘50 alla fine degli anni ’60 spostandosi nel mondo e regalandoci stralci di Cincinnati, Las Vegas, Città del Messico (stupenda la fotografia degli interni dell’albergo), una splendida e libertina Parigi, il Kentucky e infine Mosca, dove si svolge l’epilogo della serie.
L’aspetto che qui più ci interessa è ovviamente, la caratterizzazione psicologica della protagonista.
La storia si apre con Beth Harmon (interpretata da una fine Anya Taylor-Joy) novenne in orfanotrofio, che sviluppa fin da subito una dipendenza dagli antidepressivi, somministrati a tutti i bambini per aiutarli “a stare meglio” (epica la scena finale del primo episodio che, per non spoilerare troppo, non vogliamo riferire). Nel corso della miniserie, attraverso dei flashback via via più chiarificatori, si comprende il motivo per cui la piccola è sola al mondo e si vedrà, nel tempo, come Beth porterà con sé i segni di quelle magiche pillole verdi. Sarà il signor Shaibel, custode dell'orfanotrofio, a insegnare a Beth a giocare a scacchi, un insegnamento tecnico quanto umano e, fin dalle primissime sequenze di lei bambina, vediamo già la strutturazione della personalità narcisistica, rintracciabile in ogni piccolo dettaglio comportamentale, verbale e non.
Beth verrà adottata da Alma Wheatley e suo marito, venendo catapultata in un mondo familiare a lei sconosciuto. Anche qui la sua impalcatura narcisistica l’aiuta ad adattarsi a questo ambiente domestico, con un atteggiamento vagamente distaccato e sprezzante. Forte del suo indubbio talento, la protagonista della serie inizia a tracciare il suo percorso storico nel mondo degli scacchisti, un mondo prevalentemente maschile, in cui riesce ad emerge per diversi motivi. Vittoria dopo vittoria, impartisce lezioni di velata presunzione e determinazione e impara, col tempo, ad incassare le amare ma umane sconfitte, segno che la corazza progressivamente può indebolirsi. Durante questo percorso di vita Beth prova a intraprendere vari tipi di rapporti, con non poche problematicità. Se infatti, da un lato l’aspetto di perfezionismo, di invidiabile estro e genio si fa strada e rende Beth così apparentemente ferma e stabile, bella e anche curata esteticamente, con un aspetto ricercato e fine (bellissimi gli abiti che indossa, ispirati quasi sempre ai pezzi degli scacchi), dall’altro, la nostra scacchista fa i conti con la frammentazione della sua identità, con pezzi di Sé poco integrati e non in comunicazione tra loro.
Vediamo lo sforzo continuo che Beth deve fare per gestire i momenti di vuoto e disintegrazione, tipici del disturbo borderline di personalità. Pertanto, potrebbe trarre in inganno l’assetto narcisistico di Beth quando invece, ha solo il compito di fronteggiare il nucleo borderline. La coscienza di Beth è disgregata, le relazioni sono guidate da Modelli Operativi Interni molteplici ma disconnessi, una “parte apparentemente normale” funziona benissimo, diventa campionessa di scacchi, svolge le normali funzioni vitali mentre la “parte emotiva” rimane intrappolata nel dolore (Van Der Hart, Nijenhuis & Steele, 2011). E infatti, ad un certo punto il meccanismo crolla e sicuramente crollerà più e più volte nel corso della vita di Beth (anche se nel finale raggiunge una, si spera duratura, integrazione).
Possiamo ipotizzare quindi che il funzionamento della ragazza sia delineato su due schemi interpersonali maladattivi (Dimaggio et al., 2013, 2019). Lo schema primario si origina dall’assenza precoce di persone accudenti e calde, dalle trascuratezze e traumi subiti che strutturano un’immagine negativa di sé permeata di solitudine, senso di non amabilità, abbandono e minaccia costante. Tutto questo provoca stati dolorosi nucleari gestiti da bambina con il ricorso alle pillole, distanziamento emotivo dalle esperienze interne e relazionali e, successivamente, con strategie di stordimento come droghe, sesso e alcol, con stati d’isolamento e di ritiro e l’ascesa nel rango perfezionistico-competitivo. Sono proprio queste strategie che la aiutano a gestire, in modo disadattivo, il timore dell'abbandono (Salvatore et al., 2020).
Da qui si origina un secondo schema in cui il desiderio di riconoscimento e considerazione, a conferma del proprio valore e della propria esistenza, non tollera nessuna falla, nessun errore, nessuna perdita né sconfitta: Beth deve dimostrare, deve vincere e spesso, ci riesce. Come le verrà detto da uno dei suoi più temuti avversari, primeggiare: “è il tuo destino, afferralo”. La competizione la vitalizza, la scuote facendola uscire dall’ottundimento e dall’anestesia mentre la vincita, la ricchezza e il potere, la riscattano dalla sua storia di vita, sperando di trovare un suo posto e una collocazione nel mondo…ma, davvero riesce? Crediamo che una delle scene più toccanti della serie sia quella in cui Beth ripensa alle parole di Shaibel quando le mostra l’importanza della resa, il modo in cui accettare e incassare la sconfitta. Ma se la resa porta con sé dolore caotico e ingestibile capiamo bene quando sia difficile da far emergere e tollerare.
Per Beth la scacchiera è una sicurezza, è uno spazio mentale prevedibile e sicuro, 64 caselle su cui muoversi tranquilla nel proprio mondo interno ed esterno, evitando accuratamente i suoi “luoghi oscuri” (Dimaggio, 2020). Anche lei lo dice ad un certo punto, sfiorando quasi la quarta parete, un po’ come fa Novecento di Baricco (o Tornatore per chi preferisce il film), per lui erano gli 88 tasti del pianoforte. Beth evita accuratamente l’intimità: piuttosto che rischiare la rottura di una relazione o la riattivazione di un nucleo traumatico di non amabilità e trascuratezza, preferisce vivere in solitudine, nel ritiro emozionale (Meares, 2012).
Nel corso delle puntate, vari personaggi accudenti riescono ad entrare nel mondi di Beth. Solo grazie a questo può finalmente distendersi e spostarsi dal rango competitivo, faticoso e frustrante, ad un puro divertimento esplorativo, in modo libero e rilassato. Infatti proprio nella scena finale, finalmente libera, con un mezzo sorriso e il suo solito sguardo presente e centrato dice al vecchietto: “Giochiamo”.
Ci sarebbero tante altre osservazioni da fare sulla serie: dal disprezzo di Beth verso le coetanee all’invidia della loro dimensione di gruppo, dal rapporto con la madre adottiva a quello con i suoi avversari, in particolare con Borgov, perfino le sue relazioni sentimentali e i suoi aspetti seduttivi. Osservazioni sul mondo maschilista che si lascia gentilmente rompere dalla presenza di Beth e sulla sua capacità di giocare mentalmente ogni partita, anticipare ogni propria e altrui mossa con estrema precisione. Infine come non restare affascinati dal suo mondo onirico che le accende, a notte, uno scenario a tratti inquietanti proiettando una scacchiera sul soffitto.
Molte delle nostre osservazioni sono frutto di confronti serali, messaggi e ipotesi di funzionamento. Nella realtà clinica, la concettualizzazione del caso deriva da un’analisi attenta degli episodi narrativi e frutto di un lavoro di condivisione non indifferente. Non a caso si parla di “formulazione condivisa del caso” (Dimaggio et al., 2013). Qui, questa dimensione condivisa viene meno, purtroppo nessuno di noi ha avuto modo di esplorare i vissuti interni di una presunta Beth Harmon. Siamo però certi che il suo disperato tentativo di gestire quello che può, di muovere pedoni, cavalli e regine su una scacchiera, le abbiano conferito un senso di agentività sugli eventi. Uscendo dalla dimensione poco controllabile delle sue pedine interne, le sue mille parti di sé, giocano una partita in cui Beth non ha proprio potere, ed ecco che dal caos interno giungiamo alla quiete del tavolo da gioco.
Vito Lupo & Virginia Valentino.
Bibliografia:
Dimaggio G., Montano A., Popolo R., Salvatore G. (2013). Terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Dimaggio G., Ottavi, P., Popolo R., Salvatore G. (2019). Corpo, immaginazione e cambiamento. Terapia metacognitiva interpersonale. Milano: Raffaello Cortina.
Dimaggio G. (2020). Un attimo prima di cadere. La rivoluzione della psicoterapia. Milano: Raffaello Cortina.
Liotti G. (1994). La dimensione interpersonale della coscienza. Roma: Carocci.
Meares R. (2012). Un modello dissociativo del disturbo borderline di personalità, R.Cortina ed., Milano 2014.
Salvatore G., Bianchi L., Buonocore L. et al. (2020). Metacognitive Interpersonal Therapy for Borderline Personality Disorder: A Single Case Study. Clinical Case Studies. September 2020.doi:10.1177/1534650120960234
Van Der Hart O., Nijenhuis E. R. S., Steele K. (2011). Fantasmi nel Sè. Trauma e trattamento della dissociazione strutturale. Milano: Raffaello Cortina Editore.